Il Restauro della Pietà Bandini

Il Restauro

IL RESTAURO DELLA PIETA’ DI MICHELANGELO

di Beatrice Agostini e Paola Rosa

Pietà Bandini; Durante il restauro, Opera di Santa Maria del Fiore/foto Alena Fialova

Il 25 novembre 2019 prende avvio davanti agli occhi di migliaia di visitatori il restauro del principale capolavoro scultoreo michelangiolesco ospitato all’interno del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze: la Pietà dell’Opera del Duomo nota come Pietà Bandini.

Per consentire di mantenere un contatto diretto tra questa celebre opera e il pubblico, il cantiere di restauro della Pietà è stato progettato come un “cantiere aperto”, permettendo a visitatori e appassionati di seguire e apprezzare direttamente tutte le fasi di questo importante intervento. Un’occasione unica per comprendere meglio la complessa storia dell’opera di Michelangelo, le varie fasi di lavorazione e la tecnica scultorea utilizzata.

Le quattro figure che rappresentano l’episodio della Deposizione sono scolpite in un blocco del peso di circa 2700 kg corrispondente a un metro cubo di marmo.

La scultura stessa diventa mappa della sua travagliata e complessa storia, mostrando ben evidenti sulla superficie tutte le cicatrici che nel tempo hanno compromesso la facies originaria: fratture, fessurazioni, rilavorazioni, graffi, solchi e depositi di varia natura, sono tracce indelebili degli eventi traumatici che l’hanno contraddistinta fin dalla sua creazione.

Nonostante le molteplici vicissitudini, la Pietà Bandini non era mai stata oggetto di un intervento di restauro se non quello eseguito nel 1500 dall’allievo di Michelangelo Tiberio Calcagni. Oltre all’incollaggio delle parti fratturate, il Calcagni, senza entrare in competizione con il Maestro, intervenne rilavorando le superfici, creando profondi sottosquadri e reinventando quello che viene considerato il suo principale contributo: la figura della Maddalena. Questo che oggi si conclude, può essere considerato come il primo vero intervento di restauro della Pietà fiorentina.

Commissionato dall’Opera di Santa Maria del Fiore, con il finanziamento della Fondazione non profit Friends of Florence e sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Firenze e le province di Pistoia e Prato, il restauro è stato affidato alle restauratrici Paola Rosa con la collaborazione di Emanuela Peiretti e il coordinamento scientifico di Antonio Natali e Vincenzo Vaccaro, la consulenza scientifico e storico-artistico di Annamaria Giusti, responsabile dei lavori Samuele Caciagli e sotto la direzione di Beatrice Agostini.

Molti i depositi superficiali che ne alteravano la leggibilità e la cromia a partire dai cospicui residui di gesso del calco, effettuato nel 1882 dal formatore fiorentino Oronzio Lelli, quando la scultura era collocata in Cattedrale e oggi conservato presso la Gipsoteca dell’Istituto d’Arte di Firenze.

Fortunatamente l’abbondante presenza di gesso non era dovuta a un fenomeno di degrado del marmo ma a una scarsa pulitura succeduta al calco, che inevitabilmente aveva lasciato un vistoso candore e un’eccessiva aridità sulle superfici. Per ovviare a questo sgradevole effetto, sopra i residui di gesso era stata applicata della cera, rinnovata poi nel tempo, alternandola a delle occasionali puliture.

La superficie appariva quindi molto ambrata e cromaticamente squilibrata a causa del naturale processo d’invecchiamento delle cere applicate nelle varie manutenzioni, soprattutto sulle pieghe delle vesti e sui rilievi del modellato, in evidente contrasto con i sottosquadra rimasti più chiari.

Attraverso un’attenta analisi e uno studio approfondito dei fenomeni di degrado presenti sulla scultura è stato possibile caratterizzare lo stato di conservazione dell’opera e definire il metodo operativo d’intervento più idoneo, procedendo con l’esecuzione di specifiche mappature e successivamente con prove preliminari di pulitura.

Al fine di documentare lo stato di fatto dell’opera e le varie fasi operative, sono state eseguite una dettagliata documentazione fotografica (Alena Fialovà Fotografa) e video (3dSign di Giovanni De Stefano) e delle scansioni mediante tecniche di rilievo laser scanner (Lorenzo Sanna Architetto) e fotogrammetrico (Dipartimento di Architettura DIDA-Università degli Studi di Firenze) così da poter ricostruire attraverso modelli tridimensionali ad alta precisione ogni parte del gruppo scultoreo, esaminando in particolar modo le aree di congiunzione tra le parti rotte e riassemblate.

Un’ampia campagna diagnostica conoscitiva dello stato e delle tipologie di degrado ha permesso di valutare la composizione dei depositi presenti sulla superficie. L’esigenza di conoscere in maniera approfondita lo stato di conservazione dell’opera ha reso necessaria l’esecuzione di prelievi di campioni, analizzati in parte nei laboratori della Soprintendenza[1], presso il DCCI[2] dell’Università di Pisa e in parte da Adarte snc presso i laboratori dell’Università degli Studi di Firenze[3], attraverso l’utilizzo di specifica strumentazione per analisi di tipo chimico-fisico e mineralogico-petrografico. Fin dai primi risultati è apparso evidente come la diagnosi confermasse la percezione visiva sullo stato di conservazione e cioè come sulla superficie del marmo fossero presenti gesso, cere alterate e cere mescolate a particellato carbonioso.

A seguito della riapertura del cantiere dopo lo stop dovuto all’emergenza Covid 19, sono stati effettuati i prelievi dei campioni per la ricerca della cava di provenienza dei marmi tramite analisi isotopica, analisi spettrografia EPR e analisi della misura della granulometria dal Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Firenze col supporto anche del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra dell’Università di Ferrara e dell’ISPC-CNR[4].

I campioni sono stati prelevati in corrispondenza delle fratture delle parti marmoree, con l’obiettivo di riuscire a caratterizzare il marmo di tutte le parti integrate e ricomposte presenti sulla scultura, così da risalire alla genesi del blocco lavorato dal Maestro. L’analisi completa è stata portata a termine su 6 campioni per i quali sono state messe a confronto le zone di provenienza delle cave di Colonnata, Miseglia, Torano e Seravezza: i risultati hanno riunito i campioni in un unico gruppo omogeneo che risulta compatibile con le caratteristiche del marmo dalle cave di Seravezza in provincia di Lucca. Questo risultato è molto importante perché smentisce ciò che la letteratura fino ad ora ha sempre riportato, indicando il blocco della Pietà come marmo di Carrara, tradizionalmente più utilizzato da Michelangelo per la realizzazione delle sue opere.  Infinite sono le ipotesi su come Michelangelo sia entrato in possesso di questo blocco di marmo, dal momento che non risultano documenti di acquisto in merito. Le cave di Seravezza, molto attive in epoca etrusca e romana, nel 1500 erano di proprietà medicea e poco sfruttate, tanto che la strada non era facilmente accessibile. Nel 1516 Papa Leone X, affidò a Michelangelo il progetto della decorazione scultorea della facciata della Chiesa di San Lorenzo, sollecitandolo a utilizzare i marmi di sua proprietà e a realizzare la strada dalle cave al mare.  Sappiamo però che Michelangelo non era soddisfatto della qualità di questi blocchi perché presentavano venature impreviste e “peli”, cioè microfratture, e compito assai difficile era riuscire a individuarli e capire che direzione prendessero all’ interno del blocco. Si delinea, quindi, sempre più la conferma che il marmo utilizzato per la Pietà, proveniente da questa zona, poteva essere realmente difettoso come ci riporta il Vasari nelle sue “Vite”, dove descrive un marmo duro, pieno di impurezze, che faceva fuoco ad ogni colpo di scalpello. Infatti, durante il restauro sono emerse tante piccole inclusioni di pirite e numerose microfessure, in particolare una sulla base, che appare sia anteriormente che a tergo e che Michelangelo potrebbe aver incontrato dentro il blocco di marmo mentre scolpiva il braccio sinistro di Cristo e quello della Vergine, costringendolo così ad abbandonare l’opera per l’impossibilità di proseguire il lavoro. Sempre con l’intento di individuare una sorta di cronistoria degli interventi eseguiti sulla scultura, facendo riferimento ai campioni prelevati negli anni ’90 dall’OPD[5] e già riportati nella pubblicazione del 2006 di J. Wasserman, sono state analizzate anche le stuccature rimosse che hanno confermato la composizione ipotizzata in prima istanza.

L’impasto è costituito da gesso e polvere di marmo sulle rotture dove i pezzi combaciano perfettamente ovvero nel braccio destro del Cristo e della Maddalena, mentre sulle rotture del braccio sinistro del Cristo e della Vergine l’impasto è costituito da colofonia e polvere di marmo (materiale ritenuto più antico). L’analisi e lo studio storico-critico dell’opera hanno portato poi alla scoperta o conferma di alcune particolarità leggibili sulla superficie dell’opera: osservando le foto dell’archivio Alinari del secolo scorso, dove l’opera è inquadrata nella sua precedente collocazione dietro l’altar maggiore del Duomo, con una scaletta di legno addossata alla parte tergale, è stato possibile spiegare su quest’area la mancanza di gocciolature di cera dei candelieri e di sostanze protettive comunemente utilizzate nelle manutenzioni ordinarie del tempo e diffuse su quasi tutta la restante superficie scultorea. La meticolosa rimozione delle gocciolature di cera e dei residui di gesso del calco ottocentesco è stata eseguita a secco con bisturi alternandola alla pulitura ad acqua per l’eliminazione dello sporco superficiale.

Dopo varie prove a partire da gennaio 2020 ha preso avvio il vero e proprio intervento di pulitura effettuato mediante tamponi imbevuti di acqua deionizzata leggermente riscaldata, partendo dalla parte tergale dell’opera che presentava depositi più abbondanti e scuri e che non erano mai stati oggetto di pulitura perché non a vista. Proseguendo la pulitura sul fianco della Maddalena sono affiorate numerose alterazioni cromatiche sotto forma di colature che erano già state evidenziate nelle foto UV (Ottaviano Caruso). Le sovrammissioni di cera si presentavano sia sotto forma di schizzi piccoli e ravvicinati e di gocciolature di varia forma, spessore, lunghezza, che di stratificazioni ampie, compatte e uniformi prodotte dai passaggi ripetuti di pennelli e panni utilizzati per lucidare e ravvivare in passato la scultura.

La complessità della fase di pulitura è stata quella di cercare di raggiungere un equilibrio cromatico omogeneo, soddisfacente e rispettoso della superficie lapidea nonostante la presenza di depositi e di sostanze alterate assai eterogenee. Nelle zone dove le cere, per il loro naturale processo d’invecchiamento, avevano assunto una colorazione molto ambrata e disarmonica sono state eseguite delle prove di pulitura, sia con tamponature localizzate di solventi sia con impacchi a base di ammonio carbonato in soluzione acquosa con tempi di applicazione variabili, allo scopo di alleggerire il più possibile le difformità cromatiche.

Infine, dopo la rimozione delle vecchie e antiestetiche stuccature, quelle nuove sono state realizzate con un intento “mimetico” sia dal punto di vista morfologico che cromatico. L’ obiettivo è stato quello di raggiungere una lettura superficiale gradevole, uniforme, senza soluzione di continuità, riproponendo l’immagine della Pietà scolpita “ex uno lapide”, probabilmente pensata ab origine da Michelangelo.

L’eccezionalità di questo restauro, al di là della necessità di un intervento strettamente conservativo, risiede nell’aver restituito dignità a questo capolavoro michelangiolesco di cui prima si apprezzava quasi con fatica l’eccezionale modellato.


Note

1 Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Firenze e le province di Pistoia e Prato

2 Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Università di Pisa

3 Laboratori del Consorzio CSGI presso il Dipartimento di Chimica, laboratori del Dipartimento di Scienze della Terra

4 Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale

5 Opificio delle Pietre Dure

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