Il Mondo della Fotografia Siena L’Angelo e la sua Annunciata

L’Angelo e la sua Annunciata

 

L’ANGELO DELL’ANNUNCIAZIONE

Simone Martini

 

 

c. 1330

tempera su pannello di pioppo

superficie dipinta (recto):  29.5 x 20.5 cm (11 5/8 x 8 1/16 in.)

totale: 31 x 21.5 cm (12 3/16 x 8 7/16 in.)

superficie dipinta: (base di gesso sul verso):  21 x 30.2 cm (8 1/4 x 11 7/8 in.)

compresa cornice: 54.6 x 32.9 x 4.1 cm (21 1/2 x 12 15/16 x 1 5/8 in.)

Collezione Samuel H. Kress 1939.1.216

 

fonte

National Gallery of Art Online Editions

Traduzione di Andreina Mancini

 

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Introduzione

Il dipinto rappresenta l’arcangelo Gabriele, che annuncia alla Vergine Maria la nascita di Gesù.[1] Evidentemente esso presuppone un’immagine complementare della Vergine Annunciata in una tavola separata, che in realtà è sempre stato riconosciuta nella Vergine Annunciata attualmente all’Ermitage in San Pietroburgo [fig.1] Quest’ultima, identica alla tavola di Washington nel formato e nella decorazione punzonata, proviene dalla collezione romana del conte Gregorio Stroganoff (1829-1910) ed entrò a far parte dell’Ermitage dopo la morte del collezionista. [2] Le due metà del dittico probabilmente furono separate nel XIX secolo, dato che lo stato di conservazione molto simile delle due tavole suggerisce un destino simile: la superficie dipinta di entrambe è stata rovinata da una drastica ripulitura, probabilmente al momento della separazione a metà del XIX secolo, quando apparvero sul mercato italiano dell’arte.

Nel 1901, quando si trovava ancora a Roma presso la collezione Stroganoff, [3] Giovanni Bernardini riconobbe la Vergine Annunciata ora in Russia, sia pure con qualche incertezza, come opera autografa di Simone Martini. Quasi all’unanimità [4] fu riconosciuta come opera del maestro senese dopo la sua esposizione alla Mostra dell’antica arte senese nel Palazzo Pubblico di Siena nel 1904. Nel 1935 poi Lionello Venturi identificò l’immagine dell’Angelo dell’Annunciazione come tavola compagna della Vergine Annunciata già Stroganoff. [5]

 

 

La perizia di F. Mason-Perkins

 

L’opinione di Venturi era confermata in pareri manoscritti di Adolfo Venturi, F. Mason Perkins (entrambi senza data), Giuseppe Fiocco e Wilhelm Suida (entrambi datati 1938). [6] Anche il primo catalogo  della Galleria Nazionale d’Arte (1941) accettò l’attribuzione a Simone Martini, citando una perizia scritta di Roberto Longhi, che confermava l’attribuzione a Simone, e il parere di Bernard Berenson, che la respingeva. [7] Nella letteratura successiva le opinioni si sono divise: numerose pubblicazioni hanno accettato l’attribuzione a Simone, [8] anche se molti studiosi hanno preferito parlare di un prodotto della bottega dell’artista o comunque hanno mostrato qualche incertezza sulla sua qualifica di opera autografa. [9] Alcuni hanno persino proposto nomi alternativi per l’autore. [10]

Raramente, tuttavia, il problema del dittico ora diviso tra S. Pietroburgo e Washington è stato affrontato in modo sistematico o analitico. Gli storici dell’arte si sono soprattutto limitati a brevi e categoriche affermazioni, senza soppesare attentamente le prove. A mio avviso, è proprio questo esame superficiale dei due pannelli, unito alle difficoltà di valutarli a causa della marcata abrasione delle loro superfici verniciate, che spiega le incertezze nella loro attribuzione e datazione.

Quasi tutti coloro che hanno citato la tavoletta della Galleria e la sua compagna,  indipendentemente dalla loro opinione circa l’attribuzione dell’opera, si sono trovati d’accordo nell’assegnare i due dipinti agli anni della permanenza di Simone ad Avignone. Ma la loro origine avignonese è stata affermata più che dimostrata, come se la profusione d’oro, l’elaborata decorazione punzonata, l’eleganza raffinata delle pose fossero di per sé prove sufficienti che i due dipinti appartengono alla fase finale nell’arte di Simone Martini – cioè al periodo della sua massima esposizione alle tendenze del Gotico transalpino in un centro culturale fiorente come era Avignone in quel periodo. A volte, tuttavia, sono state fatte osservazioni  interessanti apparentemente in contraddizione con questa interpretazione. Fern Rusk Shapley (1966), per esempio, ha concluso il suo commento sul dipinto della Galleria dichiarando: “In ogni caso lo stile è  molto vicino a quello dell’Annunciazione di Simone del 1333, negli Uffizi”; e Andrew Martindale (1988), uno dei pochi studiosi che hanno dedicato un’analisi approfondita allo stile e alla forma delle tavole che qui ci interessano, osservò che la figura immensamente elegante e allungata  di Maria aveva più in comune con la Vergine dell’altare di San Ansano (cioè l’Annunciazione della Galleria Nazionale d’Arte degli Uffizi di Firenze) che con quello della Sacra Famiglia (Cristo Ritrovato nel Tempio, datato 1342) della Walker Art Gallery di Liverpool, e che “le immagini [del Dittico di San Pietroburgo-Washington]…mancano della forza che accomuna anche gli affreschi di Avignone, il Virgilio dell’Ambrosiana e la Sacra Famiglia di Liverpool”. [11] Vanno presi in considerazione anche alcuni dati oggettivi: ad esempio, come sottolineato da Brigitte Klesse (1967), il modello della veste di broccato dell’angelo nella tavola della Galleria ritorna in quello della figura corrispondente nell’ ‘Annunciazione’ degli Uffizi. [12] Inoltre, i punzoni usati nel dittico diviso tra S. Pietroburgo e Washington ricorrono frequentemente nell’Annunciazione ora a Firenze e in opere ancora precedenti, dipinti che risalgono al periodo di Simone a Orvieto, per esempio, ma si trovano raramente in opere che risalgono al suo periodo avignonese. [13]

A queste osservazioni, che spingono a riconsiderare la consueta datazione del dittico, possiamo aggiungerne altre che ugualmente suggeriscono che le due tavole sono effettivamente anteriori a quanto normalmente affermato. Consideriamo per primo la tavola della Vergine Annunciata di San Pietroburgo. Naturalmente, soprattutto l’eliminazione del trono della Vergine sarebbe stata causata dalla necessità di sospingere in primo piano la figura di Maria, come l’angelo che le sta di fronte, avvicinandola il più possibile all’osservatore. Ma la posizione girata del corpo riecheggia chiaramente quella della Madonna dell’Annunciazione degli Uffizi (a quanto pare il modello è stato  imitato in altri dipinti senesi, come la Vergine Annunciata già nella collezione Stoclet) [14] e non quello della tavoletta del Koninklijk Museum voor Schone Kunsten al Museo Reale di Belle arti di  Anversa. [15] Lo stesso si può dire del tema del libro tenuto semiaperto da Maria, il dito inserito tra le pagine come un segnalibro improvvisato, e delle proporzioni della Vergine stessa. La sua figura è caratterizzata dal pronunciato allungamento del busto e dal contorno morbido e pacato, formato da una successione di linee lunghe, leggermente a mezzaluna, evitando accuratamente qualsiasi movimento di disturbo nell’orlo del vestito. Una cadenza irregolare e mossa, invece, è un aspetto tipico delle tavole ora suddivise tra i musei di Anversa, Berlino e Parigi; del frontespizio miniato del codice virgiliano della Biblioteca Ambrosiana; [16] e del Ritorno di Gesù dal Tempio, una tavola firmata e datata 1342, nella Walker Art Gallery a Liverpool. [17].

Osservazioni abbastanza simili possono essere fatte sulla tavola dell’Arcangelo Gabriele di Washington. In particolare, l’accento posto sulla magnifica veste ricamata in oro, come sulla posa orgogliosa del messaggero celeste, inginocchiato ma piegato solo leggermente in avanti mentre con la punta delle dita porge il ramoscello d’ulivo alla Vergine, sottolinea la somiglianza dell’immagine con la sua controparte nella Galleria Nazionale d’Arte. Il viso, con la sua espressione misteriosa, accentuata dai delicati occhi a mandorla che danno l’impressione che l’arcangelo guardi furtivo e tuttavia indagatore verso Maria, e con le labbra serrate, può ricordare il viso del bambino Gesù nella tavola di Liverpool; tuttavia, la cadenza fluida dei panneggi, le larghe pieghe mosse solo dall’orlo svolazzante, mi sembrano tradire intenzioni alquanto diverse da quelle che ispirarono l’artista durante il suo periodo avignonese. Nell’Angelo dell’Annunciazione ad Anversa, ad esempio, l’artista non cerca più di abbagliare lo spettatore con il luccichìo del broccato esotico di seta orientale indossato da Gabriele ma preferisce invece giocare con l’accostamento dei toni delicati del rosa e del porpora pallido, facendo risaltare il mantello con il mezzo arcaico della crisografia, che scandisce le pieghe e sottolinea le forme più nettamente rispetto alle lacche trasparenti dipinte su oro. Questi aspetti, insieme alla straordinaria eleganza del disegno, mi sembrano confermare che la tavola della Galleria e la relativa tavola di San Pietroburgo (che, per quanto è possibile, a giudicare dallo stato attuale, sono stati dipinti dalla stessa mano) [18] appartengono al catalogo delle opere autografe di Simone, anche se di un periodo precedente al suo viaggio ad Avignone. Quel periodo può essere collocato tra le opere eseguite nei primi anni del 1320 per Orvieto e per l’Annunciazione degli Uffizi datata 1333.

Miklos Boskovits (1935–2011)

 

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NOTE

[1] Luca 1:26–38. Per l’iconografia della scena, cf. David M. Robb, “The Iconography of the Annunciation in the Fourteenth and Fifteenth Centuries,” The Art Bulletin 18 (1936): 480–526; Giacomo Prampolini, L’annunciazione nei pittori primitivi italiani (Milano, 1939); e gli studi più recenti di Julia Liebrich, Die Verkündigung an Maria: Die Ikonographie der italienischen Darstellungen von den Anfängen bis 1500 (Cologne, 1997); e Daniel Arasse, L’Annonciation italienne: Une histoire de perspective (Paris, 1999). Il commento di Marco Pierini (2000) che descrive la modalità con cui l’arcangelo si presenta alla Vergine, con la mano sinistra sul petto, in una “posa quasi indolente”, è una interpretazione errata dell’immagine. In realtà questo gesto è tutt’altro che raro. (cfr. l’Angelo dell’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti nella chiesa di Montesiepi) e dovrebbe essere interpretato come un’ espressione di sincerità e di spiritualità. Cf. Marco Pierini, Simone Martini (Cinisello Balsamo, Milano, 2000), 207; Daniel Arasse, L’Annonciation italienne: Une histoire de perspective (Parigi, 1999), 80–81; e François Garnier, Le langage de l’image au Moyen Âge, vol. 1, Signification et symbolique (Parigi, 1982), 184–185.

[2] No. GE 284; 30.5 × 21.5 cm.

[3] Giovanni Bernardini (1901) scrisse che la tavoletta era “forse da attribuire al grande artista senese”, forse facendo eco all’attribuzione dello stesso Stroganoff. Giovanni Bernardini, “Alcuni dipinti della collezione del conte Stroganoff in Roma,” Rassegna d’arte 1 (1901): 119. Il dipinto fu poi esposto a Siena nel 1904 col n. 38 nella Stanza XXVII, sotto il nome di Simone. Mostra dell’antica arte senese: Catalogo generale (Siena, 1904), n. 38. L’attribuzione fu accettata da F. Mason Perkins (1904), Adolfo Venturi (1907), Robert Langton Douglas (1908), Bernard Berenson (1909), e altri. Vedi F. Mason Perkins, “La pittura alla mostra d’arte antica a Siena,” Rassegna d’arte 4 (1904): 146; Adolfo Venturi, Storia dell’arte italiana, vol. 5, La pittura del Trecento e le sue origini (Milano, 1907), 629; Robert Langton Douglas, in A History of Painting in Italy from the Second to the Sixteenth Century, vol. 3, The Sienese, Umbrian, and North Italian Schools, by Joseph Archer Crowe e Giovan Battista Cavalcaselle (Londra, 1908), 69 n. 2; Bernard Berenson, The Central Italian Painters of the Renaissance, 2nd ed. (New York, 1909), 252.

[4] George Martin Richter (1929) dapprima propose il nome di Paolo di Giovanni Fei per la tavola ora a San Pietroburgo ma in seguito cambiò opinione (1941), attribuendo invece il dipinto a uno ‘stretto seguace’ di Simone, da identificare forse con Donato Martini. In seguito i due scomparti del dittico furono soprattutto studiati insieme. Cf. George Martin Richter, “Simone Martini Problems,” The Burlington Magazine for Connoisseurs 54 (1929):171–173; George Martin Richter, “The New National Gallery in Washington,” The Burlington Magazine for Connoisseurs 78 (1941): 177.

[5] Perizia del manoscritto datata 2 luglio 1935 (copia nelle cartelle d’archivio dell’ NGA).

[6] Copie dei pareri di Fiocco, Perkins, Suida, e Adolfo Venturi si trovano nelle cartelle d’archivio dell’NGA.

[7] National Gallery of Art, Preliminary Catalogue of Paintings and Sculpture (Washington, DC, 1941), 184–185. Copie dei pareri di Bernard Berenson e di Roberto Longhi si trovano nelle cartelle d’archivio dell’ NGA.

[8] Michel Laclotte, De Giotto à Bellini: Les primitifs italiens dans les musées de France (Paris, 1956), 28; Michel Laclotte, L’École d’Avignon: La peinture en Provence aux XIVe et XVe siècles (Paris, 1960), 32; Michel Laclotte e Dominique Thiébaut, L’École d’Avignon (Paris, 1983), 118 n. 10; François Enaud, “Les fresques de Simone Martini à Avignon,” Les monuments historiques de la France 9 (1963): 163, 177 n. 161; Fern Rusk Shapley, Paintings from the Samuel H. Kress Collection: Italian Schools, XIII–XV Century (London, 1966), 48; Bernard Berenson, Italian Pictures of the Renaissance: Central Italian and North Italian Schools, 3 voll. (Londra, 1968), 2:405 (ma dato che questa è un’edizione postuma di Italian Pictures, l’opinione potrebbe essere quella dei curatori e non di Berenson); Burton B. Frederiksen e Federico Zeri, Census of Pre-Nineteenth-Century Italian Paintings in North American Public Collections (Cambridge, MA, 1972), 122; Hendrik W. van Os e Marjan Rinkleff-Reinders, “De reconstructie van Simone Martini’s zgn. Polyptiek van de Passie,” Nederlands kunsthistorisch jaarboek 23 (1972): 9; “Simone Martini o di Martino,” in Dizionario enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani: Dall’ XI al XX secolo, a cura di Alberto Bolaffi e Umberto Allemandi, 11 voll. (Torino, 1975), 10:325; Antonio Caleca, “Tre polittici di Lippo Memmi, un’ipotesi sul Barna e la bottega di Simone e Lippo, 2,” Critica d’arte 42 (1977): 73; Dillian Gordon, “A Sienese verre eglomisé and Its Setting,” The Burlington Magazine 123 (1981): 150; Svetlana Nikolaevna Vsevoložskaja, Ermitage: Italienische Malerei, 13.bis 18. Jahrhundert, trad. N. Gerassimova (Leningrado, 1982), 264; Boris Piotrovsky e Irene Linnik, Western European Painting in the Hermitage (Leningrad, 1984), no. 1; Colin T. Eisler, I dipinti dell’Ermitage (Udine, 1991), 163; “Martini, Simone,” in Dizionario della pittura e dei pittori, ed. Enrico Castelnuovo e Bruno Toscano, 6 voll. (Torino, 1992), 3:526; Tatiana K. Kustodieva, Italian Painting: Thirteenth to Sixteenth Centuries, Catalogue of Western European Painting/The Hermitage (Firenze, 1994), 265; Andrew Martindale, “Martini, Simone,” in The Dictionary of Art, a cura di Jane Turner, 34 voll. (New York, 1996), 20:509; Marco Pierini, “Martini, Simone,” in Enciclopedia dell’arte medievale, 12 voll. (Roma, 1997), 8:250; Marco Pierini, Simone Martini (Cinisello Balsamo, Milano, 2000) 206–208, 242 nn.30, 32; Pierluigi Leone De Castris, Simone Martini (Milano, 2003), 332, 333; Michela Becchis, “Martini, Simone,” in Dizionario biografico degli italiani (Roma, 2008), 71:259; e naturalmente i vari cataloghi di Galleria.

[9] Giovanni Paccagnini, Simone Martini (Milano, 1955), 168–169; Enrico Castelnuovo, Un pittore italiano alla corte di Avignone: Matteo Giovannetti e la pittura in Provenza nel secolo XIV (Torino 1962), 85–96; Wolfgang Kermer, Studien zum Diptychon in der sakralen Malerei: Von den Anfängen bis zur Mitte des sechzehnten Jahrhunderts (Tesi di dottorato, Eberhard-Karls-Universität, Tübingen, 1967), 2:30; Brigitte Klesse, Seidenstoffe in der italienischen Malerei des 14. Jahrhunderts (Bern, 1967), 244; Hendrik W. van Os, Marias Demut und Verherrlichung in der sienesischen Malerei: 1300–1450 (L’Aja, 1969), 47 n. 39; Maria Cristina Gozzoli, in L’opera completa di Simone Martini, di Gianfranco Contini e Maria Cristina Gozzoli (Milano, 1970), 106; Miklós Boskovits, “A Dismembered Polyptych, Lippo Vanni and Simone Martini,” The Burlington Magazine 116 (1974): 367 n. 9; Mojmir Svatopluk Frinta, “Unsettling Evidence in Some Panel Paintings of Simone Martini,” in La pittura nel XIV e XV secolo, il contributo dell’analisi tecnica alla storia dell’arte, a cura di Hendrik W. van Os e J.R.J. van Asperen de Boer (Bologna, 1983), 216, 236; Mojmir Svatopluk Frinta, Punched Decoration on Late Medieval Panel and Miniature Painting (Prague, 1998), 118, 247, 261, 298, 324, 333, 355, 377, 388, 446, 464; Pierluigi Leone De Castris, “Problemi martiniani avignonesi: Il ‘Maestro degli angeli ribelli,’ i due Ceccarelli ed altro,” in Simone Martini: Atti del convegno; Siena, Marzo 27–29, 1985, a cura di Luciano Bellosi (Firenze, 1988), 225–226; Pierluigi Leone De Castris, Simone Martini: Catalogo completo dei dipinti (Firenze, 1989), 130–131; Andrew Martindale, Simone Martini (Oxford, 1988), 60–61, 214–215; Piero Torriti, Simone Martini (Firenze, 1991), 47; Ada Labriola, Simone Martini e la pittura gotica a Siena: Duccio di Buoninsegna, Memmo di Filippuccio, Pietro Lorenzetti, Ugolino di Nerio, Ambrogio Lorenzetti, Lippo Memmi, Matteo Giovanetti, Naddo Ceccarelli, Bartolomeo Bulgarini, Niccolò di ser Sozzo (Firenze, 2008), 82.

[10] George Martin Richter (1941) propose un’ attribuzione a Donato Martini, fratello di  Simone (un artista virtualmente sconosciuto del quale nessuna opera è sopravvissuta). Carlo Volpe (1955) si è chiesto se il dipinto, che definiva un “documento mirabile,” non potrebbe essere stato un’ opera giovanile  di Matteo Giovannetti, il pittore che sembra sia diventato un maestro di primo piano alla corte papale di Avignone dopo la morte di  Simone Martini. Successivamente, Cristina De Benedictis (1976, 1979) ha ripreso  la tesi di Richter e ancora una volta ha attribuito l’Arcangelo di Washington  a Donato, autore, secondo lei, di opere  finora  raggruppate sotto il nome convenzionale di Maestro della Madonna Straus; cf. Monica Leoncini, “Maestro della Madonna Straus–Donato Martini,” in La Pittura in Italia: Il Duecento e il Trecento, a cura di Enrico Castelnuovo, 2 voll. (Milano, 1986), 2609–610. Enzo Carli (1981) e Grazia Neri (1997) accettarono questa proposta, che non fu esclusa da Pierluigi Leone de Castris (1988, 1989), che in anni più recenti (2003) sembra averla in effetti totalmente accettata. Ved. George Martin Richter, “The New National Gallery in Washington,” The Burlington Magazine for Connoisseurs 78 (1941): 177; Carlo Volpe, “Un libro su Simone Martini, Review of Simone Martini di Giovanni Paccagnini,” Paragone 6, n.. 63 (1955): 52; Cristina De Benedictis, “Il Polittico della Passione di Simone Martini e una proposta per Donato,” Antichità viva 15, no. 6 (1976): 5, 11 n. 20; Cristina De Benedictis, La pittura senese 1330–1370 (Firenze, 1979), 29; Enzo Carli, La pittura senese del Trecento (Milano, 1981), 125; Grazia Neri, “Maestro della Madonna Straus,” in Enciclopedia dell’arte medievale, 12 voll. (Roma, 1997), 8:101; Pierluigi Leone De Castris, “Problemi martiniani avignonesi: Il ‘Maestro degli angeli ribelli,’ i due Ceccarelli ed altro,” in Simone Martini: Atti del convegno; Siena, Marzo 27–29, 1985, a cura di Luciano Bellosi (Firenze, 1988), 225–226; Pierluigi Leone De Castris, Simone Martini: Catalogo completo dei dipinti (Firenze, 1989), 130–131; Pierluigi Leone De Castris, Simone Martini (Milano, 2003), 332–333.

[11] Fern Rusk Shapley, Paintings from the Samuel H. Kress Collection: Italian Schools, XIII–XV Century (Londra, 1966), 48; Andrew Martindale, Simone Martini (Oxford, 1988), 214.

[12] Brigitte Klesse, Seidenstoffe in der italienischen Malerei des 14. Jahrhunderts (Berna, 1967), 244.

[13] Secondo l’importante (ma sfortunatamente non sempre abbastanza preciso) repertorio di Mojmir Svatopluk Frinta, Punched Decoration on Late Medieval Panel and Miniature Painting (Praga, 1998 i punzoni che decorano le tavole dell’Annunciazione ora divise tra l’Hermitage e la Galleria Nazionale d’Arte (cioè, i motivi Frinta classificati “Da 10 a”, “J 26 b” e “Jb 59”), ricorrono raramente nel quadrittico Orsini, opera spesso assegnata alla fase finale dell’artista. D’altra parte, gli stessi punzoni usati nell’Annunciazione appaiono con una certa frequenza in opere eseguite da Simone per Orvieto (“Da 10 a,” “Fea 19,” “Gh 8,” “I 86 c,” “I 129 a,” “J26 b,” and “Jb 59”) probabilmente  durante il terzo decennio; e spesso anche in dipinti quali la pala d’altare del Beato Agostino Novello, ora nella Pinacoteca di Siena, di solito datata alla seconda metà degli anni ‘20 o più tardi del Trecento o più tardi, o l’Annunciazione degli Uffizi, a Firenze, del 1333 (“Da 10 a,” “ Fea 19,” “Gh 8,” “ I 86 c,” “I 129 a,” “J 26 b,” e “Ka 30 b”). Erling Skaug, che su mia richiesta ha esaminato molto gentilmente i segni di punzone del dittico di San Pietroburgo – Washington, ha scritto in una lettera  del 16 Settembre 2006: ”Molto probabilmente il fatto che molti punzoni del dittico non sono stati utilizzati nel polittico di Orvieto significa che il dittico è successivo – forse solo di poco” aggiungendo “il suo suggerimento di datare il dittico intorno al 1330 sembra più che corretto dal punto di vista sfragiologico.”

[14] George Martin Richter, “Simone Martini Problems,” The Burlington Magazine for Connoisseurs 54 (1929): 166–173, pubblicò il piccolo dipinto Stoclet, anteriore, (25 × 17 cm), ora in una collezione privata negli USA come opera di Simone, ma generalmente gli storici dell’arte hanno respinto il suggerimento, riproposto in anni più recenti nell’album Collection Adolphe Stoclet, vol. 1, Choix d’oeuvres appartenant à Madame Feron-Stoclet: Préface de Georges A. Salles,…Avant-propos de Daisy Lion-Goldschmidt (Bruxelles, 1956), 86–88. Secondo me, la tavoletta, raramente citata nelle monografie su Simone (sebbene cf. Contini e Gozzoli 1970, dove è considerata appartenente “alla cerchia di Simone in senso lato”), e talvolta riferita a Naddo Ceccarelli (De Benedictis 1974), potrebbe essere opera della bottega di Andrea di Vanni (Senese, c. 1330 – 1413); in ogni caso, questo suggerisce che gli artisti senesi avevano familiarità col dittico dell’Ermitage. Ved. Gianfranco Contini e Maria Cristina Gozzoli, L’opera completa di Simone Martini (Milano, 1970), 106; Cristina De Benedictis, “Naddo Ceccarelli,” Commentari 25 (1974): 139–140.

[15] Il pannello in questione è uno dei sei piccoli pannelli ora suddivisi tra il Koninklijk Museum voor Schone Kunsten ad Anversa (LAngelo dell’Annunciazione e La Deposizione dalla Croce), in origine sul retro della stessa tavola; la Vergine Annunciata e la Crocifissione, in origine sul retro della stessa tavola); il Louvre, Parigi (La Salita di Gesù al monte Calvario); e la Gemäldegalerie di Berlino (La sepoltura). Facevano parte di una pala d’altare pieghevole che portava la firma di Simone e gli stemmi della famiglia Orsini; cfr. Hendrik W. van Os e Marjan Rinkleff-Reinders, “De reconstructie van Simone Martini’s zgn. Polyptiek van de Passie,” Nederlands kunsthistorisch jaarboek 23 (1972): 13-26. La maggior parte degli studiosi ha considerato questo quadrittico un’opera tarda, eseguita c.1335-1340, sebbene sia stata proposta una datazione al terzo decennio o anche prima, p.es. Marco Pierini, Simone Martini (Cinisello Balsamo, Milano, 2000), 206-208, 242 nn. 30, 32 e altri; vedi Joseph Polzer, “Simone Martini’s Orsini Folding Polyptych: Place of Origin and Date and Its Relation to the 1333 Uffizi Annunciation, 1”, Arte cristiana 98, n. 860 (2010): 321-330; e Joseph Polzer, “Simone Martini’s Orsini Folding Polyptych: Place of Origin and Date and Its Relation to the 1333 Uffizi Annunciation  2”, Arte cristiana 98, nr. 861 (2010): 401-408. Per quanto posso vedere, tuttavia, l’evidenza stilistica contraddice decisamente questa ipotesi.

[16] Il frontespizio del ms. A 79 inf. della Biblioteca Ambrosiana di Milano fu commissionato da Petrarca, come attestato da una nota autografa sul retro, a seguito del ritrovamento del manoscritto che gli era stato rubato. Cf. Bernhard Degenhart e Annegrit Schmitt, Corpus der italienischen Zeichnungen 1300–1450, 8 voll. (Berlino, 1980–1990), 2, pt. 2:319–331; Pierluigi Leone De Castris, Simone Martini (Milano, 2003), 364.

[17] No. 2787. Cf. Julian Gardner, “The Back of the Panel of Christ Discovered in the Temple by Simone Martini,” Arte cristiana 78 (1990): 389–398; Pierluigi Leone De Castris, Simone Martini (Milano, 2003), 364–365.

[18] In occasione dell’apertura della Galleria Nazionale d’Arte, Richard Offner espresse un giudizio fulminante sul dipinto in una recensione scritta per Art News, ma la rivista preferì non pubblicarla (copia delle bozze nei documenti d’archivio NGA). Offner descrisse “un vecchio pigmento rigato oltre i contorni…[che] sfigura l’originale trecentesco. La superficie rimanente sembra essere stata sottoposta a successive abrasioni….Quindi, in parte attraverso aggiunte moderne, in parte perché non ci sono mai state, le forme e i ritmi di Simone non si notano da nessuna parte”. Certamente, queste righe riflettono lo stato della tavola nel 1941, e non sappiamo cosa Offner pensò dopo la pulizia del 1955 o se le sue riserve sull’Angelo dell’Annunciazione erano da riferire anche alla Vergine Annunciata dell’Ermitage. Alcuni storici dell’arte in anni più recenti hanno cercato di identificare delle differenze stilistiche tra queste due tavole, come Maria Cristina Gozzoli in L’opera completa di Simone Martini, di Gianfranco Contini e Maria Cristina Gozzoli (Milano, 1970), 106, che inserì la tavola russa nel catalogo di Simone ma riteneva che la tavola di Washington fosse un’opera di bottega, trovando in essa  “un notevole scarto di qualità rispetto alle opere certe di Simone… tale da far pensare a un’esecuzione integralmente di bottega”. Successivamente, tuttavia, sembra che nessun altro autore sia stato capace di identificare – e chi scrive decisamente respinge – una qualche differenza di qualità fra i due scomparti del dittico. Inoltre, i recenti tentativi di discriminare nell’esecuzione tra parti autografe e di bottega sono resi impossibili fin dall’inizio a causa della superficie fortemente abrasa di entrambe le tavole. cfr. Grazia Neri, “Maestro della Madonna Straus,” in Enciclopedia dell’arte medievale, 12 voll. (Roma, 1997), 8:101; Pierluigi Leone De Castris, Simone Martini (Milano, 2003), 332–333, 365. Una simile discriminazione o divisione di fattura è comunque poco plausibile nel caso di questi piccoli dipinti per devozione privata, che, a giudicare dalla loro sontuosa esecuzione – ricca di foglie d’oro – erano probabilmente destinati a committenti di alto rango.

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ASPETTI TECNICI

Il supporto è un unico pannello di pioppo a grana verticale, [1] su entrambi i lati è stato applicato un tessuto pregiato. Sia il recto che il verso sono stati preparati con un fondo di gesso sul quale è stato steso un sottile strato di bolo rosso; a questo sul recto è stata poi sovrapposta della foglia d’oro. Le linee principali della figura sono state incise nel fondo di gesso. I disegni del broccato sono stati realizzati con la tecnica del graffito;  l’aureola e i bordi decorativi sono stati punzonati. La vernice, ad eccezione della carne, è stata stesa su foglia d’oro. [2] Le piume delle ali dell’angelo sono state articolate con linee incise. I toni della carne sono stati applicati su un sottostrato verde. Il verso, anch’esso decorato da punzonature [fig. 1], era originariamente pitturato d’ argento. [3] Il pannello presenta una leggerissima deformazione convessa ed è danneggiato da una crepa che scende dal centro del bordo superiore per circa 10 cm. La cornice del pannello è andata persa, e la parte del supporto ligneo già coperta dalla cornice è a vista su tutti i lati. Si notano piccole mancanze nel fondo oro e nella superficie dipinta lungo i bordi. La vernice e gli smalti sono generalmente molto abrasi. La ridipintura è visibile nella mano destra dell’angelo, nel suo viso e nel pavimento rosso. Si dice che il dipinto sia stato “pulito, restaurato leggermente e verniciato” da Stephen Pichetto nel 1936. [4] Alcune fotografie realizzate tra il 1937 e il 1955 lo mostrano, tuttavia, in uno stato di pesante ridipintura [fig. 2]. Mario Modestini rimosse la sovraverniciatura e restaurò nuovamente la tavola nel 1955. [5]

 

NOTE 

[1] Il dipartimento della ricerca scientifica dell’ NGA ha identificato il legno come pioppo (ved. la relazione datata 16 Settembre 1988, nei documenti d’archivio dell’ NGA).

[2] Il restauratore dell’Annunciazione degli Uffizi, eseguita nel 1333 per il Duomo di Siena in collaborazione con Lippo Memmi (Senese, attivo 1317/1347), osservò un procedimento tecnico simile, ved. Alfio Del Serra, “Il restauro,” in Simone Martini e l’Annunciazione degli Uffizi, a cura di  Alessandro Cecchi (Cinisello Balsamo, Milano, 2001), 77–114, in particolare 81 e fig. 5. Sull’uso del graffito tecnico nella pittura del Trecento senese, ved. Norman E. Muller, “The Development of Sgraffito in Sienese Painting in Simone Martini,” in Simone Martini: Atti del convegno; Siena, 27–29 marzo 1985, a cura di Luciano Bellosi (Firenze, 1988), 147–150, secondo il quale questa tecnica divenne comune solo nella seconda metà del secolo.

[3] Il Dipartimento di ricerca scientifica dell’ NGA ha analizzato il verso del dipinto tramite spettrometria a fluorescenza a raggi X (XRF). Sono stati trovati picchi elevati d’argento (ved. relazione del 29 Febbraio 2012, nei documenti d’archivio NGA).

[4] Fern Rusk Shapley, Catalogue of the Italian Paintings, 2 voll. (Washington, DC, 1979), 1:431 n. 6.

[5] Le informazioni sul trattamento di Pichetto sembrano essere state confermate dalla lettera di Lionello Venturi al restauratore, datata febbraio 1936 (copia in documenti d’archivio NGA), che riporta il ritrovamento della tavola qui discussa. Evidentemente, poco dopo fu consegnata a Pichetto per “riordinare”. Anche i “Condition and Restoration Records” della Samuel H. Kress Collection (copia in documenti d’archivio dell’ NGA) citano “alcuni restauri” eseguiti da Pichetto, aggiungendo, “1955 . . . M. Modestini ha tolto la vernice e tutte le sovraverniciature. . . . La pulizia ha rivelato che diversi secoli fa una notevole quantità di vernice originale era stata ripulita in modo eccessivo. Per la testimonianza di un osservatore attento come Richard Offner sullo stato del dipinto al momento del suo arrivo alla National Gallery of Art, vedere la Nota di ingresso 18.

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PROVENIENZA

Charles John Canning, II visconte Canning e poi I conte Canning [1812-1862]; per lascito alla sorella Harriet Canning de Burgh [1804-1876], marchesa di Clanricarde; per eredità a sua figlia, Margaret Anne de Burgh Beaumont [1831-1888]; probabilmente per eredità a suo figlio, Wentworth Canning Blackett Beaumont, primo visconte Allendale [1860-1923];[1] si dice che fosse nella collezione di Henry George Charles Lascelles, VI conte di Harewood [1882-1947], Harewood House, Leeds, Yorkshire; [2] Lionello Venturi [1895-1961], New York; [3] venduto nel 1936 alla Samuel H. Kress Foundation, New York; [4] 1939 donazione a NGA.


[1] Il retro del dipinto reca un’etichetta cartacea stampata con uno stemma con tre teste di Moro di profilo e sopra il diadema di un visconte. Sotto è dipinto il nome CANNING. Come con una nota Ellis Waterhouse nel 1980 (nei documenti d’archivio NGA) informò la Galleria, questo non può che riferirsi a Charles John Canning; su Canning vedi anche Bernard Burke, A Genealogical and Heraldic Dictionary of the Peerage and Baronetage of the British Empire, 24a ed., Londra, 1862: 171. Anche l’etichetta di carta porta inciso il nome scritto a mano di Lady Margaret Beaumont e il numero 32. Secondo la nota di Waterhouse, questo non può che essere Margaret Anne de Burgh, figlia di Ulick John de Burgh, I marchese di Clanricarde e di Harriet Canning, sorella ed erede di Charles John Canning. Margaret Anne sposò Wentworth Blackett Beaumont (1829-1907) nel 1856. Il dipinto probabilmente è stato ereditato dal loro figlio, Wentworth Canning Blackett Beaumont.

[2] Lascelles è nominato nella lettera di Lionello Venturi scritta nel febbraio 1936 al restauratore Stephen Pichetto (copia nei documenti d’archivio dell’ NGA) come la persona da cui “circa due anni fa”, cioè circa nel 1934, il dipinto fu acquistato dalla persona senza nome (Venturi) che lo possedeva nel febbraio 1936. Lascelles era un nipote di Lady Elizabeth Joanna de Burgh (sorella di Margaret Anne de Burgh Beaumont), che aveva sposato Henry Thynne Lascelles, IV conte Harewood, che divenne l’erede del fratello celibe di Elizabeth e di Margaret, Herbert George de Burgh-Canning, 2° (e ultimo) marchese di Clanricarde. Tuttavia, secondo Ellis Waterhouse (vedi nota 1), il pannello di Washington “non è mai appartenuto al conte di Harewood (era uno dei pochi quadri di Clanricarde che non aveva)”. Il pannello, infatti, non è incluso nel catalogo di Tancred Borenius della collezione Harewood; l’introduzione indica che il II marchese di Clanricarde lasciò in eredità a Lascelles principalmente quadri di maestri inglesi del XVIII secolo; vedi Tancred Borenius, Catalogue of the pictures and drawings at Harewood House and elsewhere in the collection of the Earl of Harewood, Oxford, 1936: VII.

[3] Fern Rusk Shapley (Catalogue of the Italian Paintings, 2 voll., Washington, D.C., 1979: 1:431) afferma che Venturi vendette la tavola a Samuel H. Kress nel 1936.

[4] Ved. anche l’Archivio digitale della Collezione Kress.

 

https://kress.nga.gov/Detail/objects/2058

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