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La Cappella del Cardinale del Portogallo, note storiche e artistiche

SCHEDA STORICO ARTISTICA

La Cappella del Cardinale del Portogallo in San Miniato

 

Foto Antonio Quattrone

 

Un viaggio senza ritorno, quello intrapreso da Roma verso Mantova da Giacomo di Lusitania, cardinale di Sant’Eustachio, per partecipare al Concilio indetto per fronteggiare l’avanzata ottomana. I primi sintomi di una malattia a Siena e poi la morte avvenuta a Firenze il 27 agosto 1459, solo il tempo per dettare la sua volontà di essere seppellito nella Basilica di San Miniato, raccolta dal suo tutore l’arcivescovo di Silves Alvaro che si occupò personalmente di reperire i fondi necessari alla costruzione della cappella e di individuare gli artisti a cui affidare l’incarico. Per lui uno sforzo notevole tanto da meritarsi un ricordo sull’arco d’ingresso della cappella, dove sul fregio marmoreo corre l’iscrizione a memoria della traslazione del corpo e l’anno 1466 [12 settembre], data questa della consacrazione della cappella.

Dopo una lunga attribuzione del progetto architettonico ad Antonio Manetti, dei documenti di archivio – preziosissimo è il fondo dell’Archivio dell’Ospedale degli Innocenti – ridimensionano questa paternità per la brevità del tempo trascorso fra la concessione alla realizzazione del progetto rilasciata il 21 giugno 1460 dall’Arte dei Mercatanti (o Calimala), che della chiesa ne deteneva il patronato, fino alla morte dell’architetto nel dicembre dello stesso anno. È quindi verosimile credere che il Manetti sia stato l’ideatore del progetto, poi portato avanti da Giovanni figlio dello scalpellino Matteo Gamberelli, nonché fratello di Antonio Rossellino con cui nel giugno 1460 venne stipulato il contratto per la decorazione plastica dell’intera cappella.

Il risultato è un piccolo spazio scandito da quattro archi con intradossi dove sono disposti ritmicamente sessantanove rosoni in pietra serena, con sfondo dipinto da Chimenti di Lorenzo ad imitazione di pietre pregiate e impreziositi da foglia d’oro. Su tutte le pareti corre la decorazione plastico – pittorica per giungere ad un’armoniosa soluzione di continuità con l’architettura, a partire dal pavimento intarsiato che si dilata fino al basamento del catafalco del romano Stefano di Bartolomeo – probabile autore anche dell’altare – in grado di proporre a Firenze, attraverso l’accostamento di serpentino, porfido e granito, la tradizione geometrica cosmatesca con quattro assi simmetrici a formare un quadrato con una rondella centrale e quattro disposte esternamente. Il soffitto, alleggerito nell’intercapedine da cocci di cotto, è interamente rivestito con una decorazione geometrica in terracotta invetriata, a finto mosaico, dai toni giallo, verde e viola che richiamano l’araldica aragonese, nei quali si inserisce il tondo centrale con lo Spirito Santo con i suoi sette doni richiamati da altrettanti candelabri, attorno al quale sono a rilievo sempre entro tondi le quattro Virtù cardinali con la Temperanza, la Prudenza la Giustizia con la spada e il globo in mano e la Fortezza con lo scudo dove lo stemma del cardinale defunto incontra quello di casa Aragona. Un luccichio di colori brillanti nel tempo sbiaditi, anche a causa dell’uso della porporina in passati restauri, ora rimossa grazie all’uso del laser. Dopo una vaga attribuzione ad Andrea della Robbia, è ormai assodato che si tratta di uno dei lavori più raffinati di Luca della Robbia, assistito da Agostino e Ottaviano di Antonio di Duccio, firmatario del contratto con il cardinale Alvaro stipulato il 14 aprile del 1461 per 150 fiorini.

Commissionato il primo dicembre del 1461 dal vescovo Alvaro ad Antonio Rossellino con la clausola di completare il lavoro entro il Natale dell’anno successivo, il Monumento sepolcrale del cardinale del Portogallo propone la formula di quello di Leonardo Bruni in Santa Croce di Bernardo, qui alleggerito attraverso l’inserzione di elementi decorativi autonomi che nell’insieme definiscono forma e spazio della parete destra. Una grande cortina marmorea introduce alla nicchia dove su di un ricco basamento poggia il catafalco rivestito da una coperta finemente ricamata, un tempo dipinto e dorato come emerge dalle tracce rinvenute durante il restauro, su cui giace il giovane cardinale nelle sue reali fattezze – il volto è stato scolpito sulla maschera mortuaria realizzata da Desiderio da Settignano – abbigliato con una pianeta di pregiata fattura. Lo piangono dolenti puttini presi in prestito dalla migliore tradizione della scultura antica, non una citazione isolata perché anche il liocorno ed il Genio alato raffigurati nel basamento alludono alla vittoria del defunto sulle passioni e all’ascesa della sua anima secondo modelli classici che pare traggano spunto dai cammei della collezione medicea. Gli angeli svolazzanti a tutto tondo della fascia centrale, precursori di quello dell’Annunciazione di Leonardo, incorniciano la porta che introduce il defunto alla vita eterna, mentre la fascia terminale accoglie in rilievo due angeli intenti a sorreggere una ghirlanda entro la quale è la Madonna che veglia sul sonno eterno con il Bambino in atto di benedire l’anima che si ricongiunge con il Signore. Quella resa morbida e vibrante delle superfici scolpite tanto ammirata dal Vasari in Antonio, non pervade l’angelo reggi corona e l’angelo reggi ghirlanda di sinistra, dalle forme salde e robuste che oltre ogni ragionevole dubbio possiamo attribuire alla mano di Bernardo morto nel corso dei lavori nel 1464.

Ultimata la parete destra con un saldo finale di 421 fiorini nel febbraio del 1466, Antonio Rossellino nei mesi successivi si dedicò alla parete opposta dove, sempre entro un’analoga nicchia speculare a quella della parete opposta, collocò il trono episcopale ai lati del quale sono incise delle iscrizioni: quella di sinistra ricorda le indulgenze concesse dal pontefice Paolo II, mentre l’altra si riferisce alle armi di membri della famiglia del cardinale, affrescate in sequenza in base al rapporto di parentela entro la cornice del marcapiano della cappella da Alessio Baldovinetti con l’aiuto del suo collaboratore Piero di Lorenzo. Quindi è il Baldovinetti  l’artista destinatario della commissione della decorazione pittorica, con la tavola raffigurante l’Annunciazione che si consuma entro un ambiente ornato solo dalla finta partitura marmorea dello sfondo in origine impreziosito da numerose dorature e lacche rosse, che trova una sua continuità ideale in verticale nella fascia inferiore con il trono marmoreo attraverso il vaso con gigli che separa l’Angelo dalla Vergine annunciata, nel registro superiore con quello scorcio di campagna toscana introdotto da quei cipressi che racchiudono l’oculo oltre il quale il paesaggio diviene realtà. Una sensibilità pittorica non comune quella di Alessio Baldovinetti, ultimo erede della “pittura di luce” appresa nel cantiere della Chiesa di Sant’Egidio dell’ospedale di Santa Maria Nuova, dove completò il perduto ciclo con Storie della vita della Vergine di Domenico Veneziano e Piero della Francesca e più apprezzabile forse, più che in questa tavola di San Miniato, in quella con lo stesso soggetto proveniente dalla Chiesa di San Giorgio alla Costa e ora agli Uffizi. Ma non solo portatore di luce Baldovinetti ma anche ultimo erede della tradizione del mosaico, tecnica in questa seconda metà del Quattrocento ormai alle sue ultime battute, e in questo ruolo egli dal 1483 si occupò del restauro del grande Cristo Pantocratore del catino absidale della basilica di cui ne diverrà conservatore fino alla sua morte.

 

Foto Antonio Quattrone

 

Un’impronta formativa che si avverte maggiormente nelle figure degli Evangelisti accompagnati dai Dottori della Chiesa affrescati a coronamento degli archi e dei Profeti affrontati da Patriarchi biblici presenti sui lunettoni della cappella, un tempo credute di Piero e Antonio del Pollaio. La mano del solo Antonio è invece riconoscibile negli angeli reggi cortina della parete frontale, possenti nella forma ma purtroppo dagli intensi toni cromatici dei drappi alterati per via di un attacco biologico risolto durante questo restauro, che introducono la tavola d’altare (acquisita dalle Gallerie Fiorentine con la soppressione del 1866 e in San Miniato sostituita da una buona copia degli anni Trenta del Novecento), con i santi Giacomo Maggiore patrono del giovane cardinale defunto, Eustachio patrono della chiesa di cui egli fu vescovo e Vincenzo di Saragozza molto venerato nella penisola iberica. Il ritrovamento del pagamento del 20 ottobre del 1466, ha per lungo tempo dato adito a credere che si trattasse di un dipinto del solo Piero, ma l’analisi attenta delle figure dei santi conferma la presenza di due mani, una più debole nella resa dei santi laterali e un’altra più espressiva, più plastica, nella figura di san Giacomo da riconoscere in quella di Antonio, a cui spetterebbe anche l’insistenza nella resa dei particolari strettamente influenzata dal passaggio a Firenze di artisti fiamminghi del calibro di Rogier van der Weyden.

 


 

Questa breve sintesi dimostra come, sotto una comune regia, nell’arco di circa un decennio è stato possibile armonizzare stili e materiali diversificati creando singole opere che riflettono luce propria, ma nell’insieme danno vita a quella Cappella comunemente riconosciuta come uno dei più alti esempi del Rinascimento fiorentino, ora restituita alla comunità nello splendore dei suoi marmi e dei suoi colori grazie alla generosità della famiglia Cherubini e l’impegno costante nella tutela del patrimonio fiorentino della Fondazione  Friends of Florence promotrice di questo esemplare restauro. Il mio personale ringraziamento va anche a tutta la folta squadra di restauratori e loro assistenti con cui è stato facile collaborare per indole e professionalità, Daniele Angellotto, Bartolomeo Ciccone, Alessandro Gianni, Anna Medori, Nicola Savioli, Filippo Tattini e Andrea Vigna, ma poi tante professionalità che sarebbe qui lungo da enumerare ma che senza il loro contributo mai avremmo raggiunto questo straordinario esito finale. Infine, un ringraziamento sincero lo devo al mio collega Alberto Felici, restauratore di provata esperienza grazie al quale abbiamo intrapreso la sperimentazione della metodica del laser applicata alla terracotta policroma con eccellenti risultati e per questo un grazie è d’obbligo a Light for Art del gruppo El.En che ci ha fornito la strumentazione a titolo gratuito e ad Alessandro Zanini per il supporto durante l’intervento. 

 

Dott.ssa Maria Maugeri

Direttore dei lavori di restauro, Funzionario storico dell’arte

Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio

per la città metropolitana di Firenze e

le province di Pistoia e Prato

 


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